galleria opere di rudy mascheretti

Critica Michele Signorelli

CONTAMINAZIONE

Lo vedi quel quadro laggiù? Questa è la sua musica.

«Nel suo delirio, il pensiero s’innalzava in regioni ignorate dagli uomini, al di sopra del mondo, delle costellazioni, dei pianeti… Mi creavo così un infinito più immenso, se fosse possibile, dell’infinito di Dio; e lì la poesia si cullava e muoveva il suo volo in un’atmosfera d’amore e di estasi. Ma dopo era pur necessario scendere da quelle sublimi regioni, tornare nel mondo della parola; e come esprimer con essa l’ineffabile armonia che gonfia il cuore del poeta, i giganteschi pensieri che, con la loro forza, quasi piegano le frasi, come il pugno forte e pesante spacca il guanto che lo riveste? Ecco dunque la delusione. Perché noi restiamo a terra, su questa terra gelida che soffoca ogni fiamma, che smorza ogni ardore. Per quale scala tornare dall’infinito alla realtà? Fino a che punto la poesia può abbassarsi senza morire? Come imprigionare questo gigante che abbraccia l’immensità?»
Con queste parole, un ragazzo appena diciassettenne della famiglia Flaubert, di nome Gustave, esprimeva due secoli fa nelle sue Memorie di un pazzo l’impossibilità di tradurre in parole i pensieri più profondi di cui è capace l’intelletto umano. Problema essenziale per uno scrittore. E per ogni sorta di artista. Come riportare sulla pagina bianca, sulla tela vuota o su un pentagramma ancora vergine tutta la complessità di pensieri e di meditazioni toccate dall’animo sensibile di un artista, poeta, scrittore, pittore, musicista che sia? È probabilmente questo problema, o meglio questa problematica, vera e propria incertezza che a volte blocca il lavoro di un artista, che sta alla base dell’attività artistica di Mascheretti. Ce lo dice il suo metodo di lavoro, il suo modo di approcciarsi alla tela. Non è infatti un caso che il modus operandi di questo artista sia sconfinato in una performance che non coinvolge il solo pittore. Mascheretti trascina infatti nella sua performance anche la propria esperienza da deejay. Ama sedersi accanto a un musicista: ognuno dei due, anzi, dei tre, ha davanti a sé la propria penna, la propria arma: lo strumento per il musicista (di solito, un sax o un violino), il pennello per il pittore, il mixer per il deejay. Non c’è un disegno di partenza sulla tela, è completamente bianca. Il lavoro del pittore, in questo caso, scaturisce dalle suggestioni, dalle influenze, dagli spunti, dalle impressioni che la musica suggerisce al suo orecchio. E di rimbalzo, la musica viene progressivamente attirata dai movimenti del pittore e dai tratti che via via compaiono sulla tela in un reciproco gioco di influenze, magnetismi, attrazioni e seduzioni tra diverse arti.
A ben pensarci, siamo quasi in presenza di una dichiarazione di impotenza individuale che trova però soluzione in una forte e decisa affermazione di potenza corale. Il solo pittore può fare ben poco. Così come il solo musicista. Da soli, non hanno nulla da dire che non sia già stato detto. Non hanno modo, da soli, di “imprigionare questo gigante che abbraccia l’immensità”. Per esprimere i più reconditi e arcani pensieri umani in tutta la loro complessità e profondità non è sufficiente, non può più essere sufficiente, la penna di uno scrittore o il pennello di un pittore o lo strumento di un musicista. Occorre unire arti diverse. Occorre che si influenzino vicendevolmente. Con le sue performances, Mascheretti ci comunica quale “scala” ha trovato per tornare “dall’infinito alla realtà”. E non è una scala solitaria. È una scala che non nasce da un seme solo, ma al contrario si
1 G. Flaubert, Memorie di un pazzo, 1838, ed. Bit (1995), p. 18.
ciba di diversi ingredienti. La melodia di uno strumento, il lavoro di mixaggio, il pennello sulla tela. Il loro incontro che diventa scontro, il loro dialogo che diventa conflitto e poi si placa nuovamente. Un po’ come quando Beethoven inserì tra le note del proprio spartito suoni onomatopeici per riprodurre il tuono delle palle di cannone esplose contro il nemico. Contaminazione. E le opere scaturite da queste performances vivono tutte di un ampio respiro che deriva proprio da questo connubio con la musica. Vibrano, sono frenetiche, accolgono tutta la tavolozza di colori, hanno l’aspetto di qualcosa nato da un’attività libera, completamente priva di preconcetti o regole, in continuo e perpetuo movimento, come la Josephine Baker ritratta da Ivanoe Gambini nel 1929 (si mastica in queste opere un sapore che ricorda la frenesia della folle Parigi degli anni Venti). Un movimento che non si esaurisce nel tempo della performance, ma che continua instancabile anche dopo che la mano del pittore ha dipinto l’ultimo tratto sulla tela e ha posato il pennello.
Ma non si esaurisce qui l’attività artistica di Mascheretti. E in effetti la mostra vuole rendere un doveroso omaggio anche all’altra faccia di questo artista. Perché capita che ritorni alla pittura “pura”, quella da studio, diciamo. Quella che parte da piccoli schizzi e bozzetti per arrivare gradualmente al dipinto finito. Bozzetti ai quali si è giustamente attribuito lo status di opere concluse esponendoli in mostra: rapidi, liberi, quasi istintivi. Corpi delineati da curve tracciate rapidamente che spesso si perdono nel vuoto lasciando all’occhio dello spettatore il compito di continuarle. Si arriva così alla sequenza dei dipinti di “nudi ombrosi” che vivono di improvvise accensioni luministiche: la pelle della ragazza ritratta, i suoi capelli si tingono di repentine, quasi brusche, pennellate di luce. Contaminazione, anche qui: quadri giocati sul contrasto chiaroscurale. Opere che affondano le proprie fondamenta su un conflitto tra luce e ombra che diventa armonia. Non c’è armonia senza conflitto.
Unione di più arti, si diceva. Non è un caso che questa mostra non si concluda nello spazio del Borgo d’Oro, ma prosegua in Città Alta, in un ideale ponte tra le due Bergamo, quella Bassa e quella Alta. E non è un caso che non ci si sposti in un’altra galleria d’arte, ma in un ristorante. Contaminazione. Nella cornice panoramica del Casual, Mascheretti proporrà un’altra performance, questa volta con un ingrediente in più: ci sarà anche l’arte culinaria ad arricchire un piatto cucinato a base di musica e pittura. E anche in questo caso la vera opera d’arte non sarà tanto il risultato finale, non sarà sufficiente mettersi davanti al quadro per goderne appieno e per coglierne tutte le molteplici sfaccettature. La vera opera d’arte, in questo caso, non sta tanto nel cosa, nell’oggetto finito, ma nel come. Per osservare veramente queste opere, e non guardarle soltanto, in una parola per fruirne, bisogna conoscere il percorso che le ha fatte nascere. Come sempre, bisogna sapere cosa c’è dietro. Quali meditazioni, pensieri, inquietudini, emozioni le hanno fatte scaturire. Qual è la loro melodia, come sono state contaminate, in che modo il pittore si è sporcato le mani per farle nascere. Quale cammino le ha portate fino ai nostri occhi con l’aspetto che hanno, per quale scala sono tornate dall’infinito alla realtà.